È partita la corsa all'oro degli abissi
[Cronache dal mare] Siamo di fronte a un momento decisivo per il futuro dei nostri oceani
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. I versi cantati da Sergio Endrigo sono sempre molto attuali nel descrivere la situazione di certe relazioni amorose, ma mai come in questo momento sembrano esserlo anche nel racconto di quanto potrebbe accadere ai nostri mari.
Questo perché si sta giocando una partita globale che riguarda gli abissi marini - luoghi a noi così distanti e sconosciuti - che può davvero ridefinire il rapporto dell'umanità con gli oceani. Mi riferisco alla spinta sempre più forte per avviare l’estrazione di metalli e terre rare dal fondo del mare. Una sorta di nuova corsa all’oro che nel 2025 potrebbe avere una svolta significativa.
E il rischio, tornando alle parole di Endrigo, è proprio che non vedendo (non parlandone, non riflettendoci) si finisca per non sentire quella scossa emotiva che in realtà dovremmo avere.
Perché se ne parla ora? Siamo davanti a un bivio
L'attenzione sul Deep Sea Mining (DSM), l'estrazione di metalli e terre rare dai fondali marini, non è mai stata così alta come in questa fase. Le ragioni sono diverse:
La crescente necessità di materie prime che interessa Stati e privati;
Il grande potenziale minerario degli abissi;
L'imminente quadro normativo internazionale, che dovrebbe regolamentare tutto ciò.
L'International Seabed Authority (ISA), l'ente delle Nazioni Unite incaricato di governare le attività minerarie nelle acque internazionali, si riunirà infatti a partire dal prossimo luglio in Giamaica per decidere se dare il via libera a questa forma di estrazione.
Fondata nel 1982 nel quadro della Convenzione ONU sul diritto del mare (UNCLOS), l'ISA - che comprende l'Unione Europea e 169 Paesi (ma non gli USA!) ed è responsabile della supervisione di ben il 54% dei fondali marini del mondo - ha il mandato di “organizzare, regolare e controllare tutte le attività minerarie nell'area internazionale dei fondali marini a vantaggio dell'umanità".
Da anni è impegnata in un complesso negoziato per definire un "codice minerario", un insieme di norme e regolamenti che dovrebbero disciplinare lo sfruttamento commerciale dei noduli polimetallici e di altre risorse presenti negli abissi.
Dopo numerosi rinvii, il 2025 potrebbe rappresentare un punto di svolta. La pressione per l'approvazione di questo codice è in aumento, alimentata dalle richieste dell'industria e dalle ambizioni di diverse nazioni.
Tutto ciò si porta dietro però forti preoccupazioni ambientali che, insieme alla richiesta di moratoria da parte di scienziati e di 32 Paesi, mettono l'ISA di fronte a una decisione storica, che potrebbe segnare per sempre il destino di ecosistemi unici e ancora in gran parte sconosciuti.
Anche l'Italia è membro del consiglio dell'ISA e può dire la sua per influenzare questo processo decisionale. Al momento però non ha preso una posizione, mentre alcune imprese nostrane hanno già mostrato interesse per l’estrazione negli abissi.
Perché vogliamo estrarli? La sete di metalli per la transizione
L’attenzione sempre maggiore verso il Deep Sea Mining è strettamente legata alla transizione energetica e digitale che sta investendo il pianeta. Lo sviluppo economico, la crescita demografica e la diffusione di tecnologie sempre più avanzate stanno generando una domanda significativa di materie prime critiche, tra cui metalli come cobalto, litio, manganese, nichel e rame, oltre alle terre rare. Questi elementi sono essenziali per un'ampia gamma di applicazioni, dall'elettronica di consumo (i nostri smartphone e pc) alle comunicazioni, dalla generazione di energia rinnovabile ai veicoli elettrici.
Secondo l'Agenzia internazionale dell'energia, la domanda di litio, cobalto, nichel, rame e neodimio è destinata ad aumentare in modo esponenziale entro il 2030.
E in un contesto in cui l'estrazione terrestre di questi materiali è spesso associata a impatti ambientali significativi e a delicate questioni geopolitiche (come quelle di cui sentiamo parlare continuamente in relazione ai conflitti che ci circondano), gli abissi oceanici, così ricchi di depositi minerali, sembrano una frontiera potenzialmente in grado di soddisfare questa crescente domanda.
Dietro la spinta per il DSM si celano anche dinamiche geopolitiche sempre più accentuate. Paesi come Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud guardano con interesse alle risorse sottomarine nel tentativo di ridurre la propria dipendenza dalla Cina, che attualmente controlla gran parte delle filiere legate alle tecnologie a basse emissioni di carbonio.
La Cina stessa, consapevole del proprio ruolo egemone nell'estrazione delle terre rare, sta investendo massicciamente nel Deep Sea Mining, considerandolo una nuova frontiera della competizione internazionale.
Perché proprio dagli abissi marini? Il tesoro dei noduli polimetallici
L'interesse per gli abissi marini non è casuale. I fondali oceanici, in particolare le vaste distese al di fuori delle giurisdizioni nazionali, sono costellati di diverse tipologie di depositi minerali. Tra questi, spiccano i noduli polimetallici, aggregati rocciosi di forma irregolare, simili a patate, che giacciono sul fondo del mare, e che sono un vero e proprio tesoro. Perché contengono significative quantità di manganese, nichel, cobalto e rame, elementi fondamentali per le batterie, i motori elettrici e altre tecnologie chiave per la transizione.
La loro presenza in aree internazionali, teoricamente patrimonio comune dell'umanità, li rende particolarmente appetibili ora che c’è così tanta competizione per l'accesso alle risorse. In particolare, l’area più ambita è la famosa zona di Clarion-Clipperton (CCZ), un'immensa pianura abissale tra il Messico e le Hawaii.
Quali sono i pro e i contro? Tra incertezze e rischi ambientali
Per diversi Stati e aziende private, il Deep Sea Mining è dunque una potenziale soluzione alla domanda di materie prime critiche e offrirebbe alcuni vantaggi teorici:
Diversificazione delle fonti: potrebbe ridurre la dipendenza dalle miniere terrestri, spesso concentrate in poche aree geografiche e soggette a instabilità geopolitiche.
Ricchezza di depositi: i fondali marini custodiscono quantità superiori di minerali essenziali.
Riduzione dello sfruttamento della manodopera, inclusa quella minorile, perché trattandosi di un'attività in buona parte robotizzata, l'estrazione in acque profonde metterebbe freno a questa piaga piuttosto comune nel settore estrattivo.
Ma c’è un grande “ma”. Anzi, più di uno.
I rischi e i potenziali impatti negativi del Deep Sea Mining sollevano forti preoccupazioni, soprattutto sul fronte ambientale. Possiamo riassumerli così:
Danni irreversibili agli ecosistemi unici
Gli abissi marini, un tempo considerati deserti, ospitano in realtà una biodiversità peculiare e adattata a condizioni estreme nel corso di milioni di anni. Le attività minerarie su vasta scala potrebbero intaccare in modo irreversibile questi ambienti fragili, che svolgono anche un ruolo chiave nel sequestro del carbonio.Impatto diretto sull'habitat
I robot raccoglitori, paragonabili a mietitrebbiatrici sottomarine, raschierebbero lo strato superficiale del fondale, distruggendo gli habitat e le comunità bentoniche che vivono attaccate ai noduli o nei sedimenti sottostanti.Produzione di pennacchi di sedimenti
Il materiale raccolto verrebbe pompato in superficie, setacciato e il sedimento residuo scaricato in mare, creando pennacchi che potrebbero soffocare gli organismi e alterare la qualità dell'acqua. (Il video sotto mostra come potrebbe essere).Inquinamento acustico e luminoso
Il rumore prodotto dalle operazioni minerarie e l'illuminazione artificiale potrebbero disorientare e disturbare la fauna marina, influenzando i comportamenti e le migrazioni.Rilascio di sostanze inquinanti
Analogamente alle attività estrattive tradizionali, anche il DSM potrebbe comportare il rilascio di sostanze tossiche nell'ambiente marino, con conseguenze ancora poco comprese.Impatti a cascata sugli ecosistemi
Le perturbazioni negli abissi potrebbero avere effetti indiretti su settori come la pesca e la sicurezza alimentare, nonché sulla capacità degli oceani di assorbire anidride carbonica, cruciale per la lotta al cambiamento climatico.
E, se non bastasse, c'è un altro punto che pesa quanto tutti gli altri messi insieme, se non di più:
La scarsa conoscenza degli impatti a lungo termine.
La ricerca sugli effetti a lungo termine del DSM è ancora limitata e le conseguenze potrebbero manifestarsi solo nel tempo.
Motivo per cui c’è chi come Greenpeace (ma non solo) si sta - giustamente - battendo per impedire l’adozione di normative affrettate. Il risultato di questa partita è molto legato al tempo: chi vuole iniziare a estrarre dagli abissi spinge infatti per avere il via libera in tempi brevissimi, mentre comunità scientifica e attivisti predicano calma perché rischiamo di prendere decisioni devastanti senza averne davvero chiara la portata.
Ci sono alternative? L’eterna promessa dell'economia circolare
Di fronte ai potenziali rischi ambientali del Deep Sea Mining emerge con forza la necessità di esplorare alternative più sostenibili per soddisfare la domanda di materie prime critiche. Il riciclo e lo sviluppo di una vera e propria economia circolare a livello globale rappresentano la strada maestra da percorrere.
L'Unione Europea ha compiuto un primo passo significativo in questa direzione con il regolamento comunitario sulle batterie, che prevede un incremento del riciclo dei metalli e l'impiego di quantità crescenti di metalli riciclati. Una strategia che punta a bloccare sul nascere il Deep Sea Mining, riducendo progressivamente la dipendenza dall'estrazione di nuove risorse.
È fondamentale quindi intervenire a monte, adottando nuovi criteri di progettazione ed ecodesign dei prodotti, che ne prolunghino la durata e ne facilitino la riparabilità e il riciclo a fine vita. Molte batterie usate, ad esempio, possono ancora avere una seconda vita in altre applicazioni, come l'accumulo di energia.
Incrementare i tassi di riciclo di tutte le materie prime, investire nella ricerca di materiali sostitutivi e promuovere politiche di riduzione della domanda sono azioni fondamentali per evitare di compromettere gli ultimi habitat marini incontaminati.
La decisione che l'ISA si appresta a prendere - e che l’Italia potrebbe influenzare con il suo ruolo all’interno dell’autorità internazionale - rischia dunque di segnare un punto di non ritorno per la salute degli oceani.
Vogliamo farci portavoce degli interessi di pochi? O vogliamo alzare la voce per la protezione degli ecosistemi marini? Almeno fino a quando non si avranno certezze sull’entità degli impatti ambientali e si investirà seriamente in alternative sostenibili.
Il futuro dei nostri mari è appeso a un filo.
Link utili e letture per immergersi ancora di più nel tema:
Il brief di Greenpeace che analizza il DSM e ne chiede lo stop.
L’ISPI spiega molto bene l’enormità di ciò di cui stiamo parlando, a livello geopolitico ed economico. Al punto che, ovviamente, pure Trump ci sta facendo più di un pensierino…
Scavare gli abissi: per sostenere la richiesta di metalli e terre rare che cresce ogni anno, da qui al 2050 dovremo estrarre più metalli di quanti ne siano stati estratti finora nell’intera storia dell’umanità.
I primi studi sul DSM dicono che gli effetti negativi durano oltre quarant’anni.
Deep Rising. La campagna e il documentario che raccontano il ruolo vitale dei fondali marini per il nostro ecosistema.
A proposito di abissi marini, ecco una delle meraviglie che si possono trovare nelle profondità oceaniche.
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