L'isola che il mare si riprese subito
[Taccuini mediterranei] Un vulcano, tre nazioni, tre nomi, sei mesi di vita: la storia di Ferdinandea e di come il Mediterraneo cancellò tutto.
Un'isola nata dal fuoco, cresciuta in tre settimane, contesa da tre regni e poi divorata dalle onde nell'arco di sei mesi. Una storia mediterranea perfetta, dove la terra e l'acqua si contendono lo spazio e vincono a turno. È la storia dell’isola Ferdinandea.
Estate 1831. Siamo in Sicilia, nel tratto di mare tra Sciacca e Pantelleria. I pescatori tornano a riva con racconti strani. Pare che il mare stia "bollendo" in un punto preciso a trenta miglia dalla costa. L'acqua cambia colore, odora di zolfo, ribolle come una pentola sul fuoco. Qualcosa si sta svegliando nelle profondità del Canale di Sicilia, dove la placca africana spinge da millenni contro quella europea e la crosta terrestre si assottiglia fino a diventare fragile come un guscio d'uovo.
Il 12 luglio una spaccatura squarcia il fondale e il magma inizia la sua corsa verso la luce, costruendo il suo cono lapillo dopo lapillo, in una gara contro il tempo e contro l'erosione che già mastica i bordi di quello che sta nascendo. Il vulcano ha deciso che è arrivato il momento di emergere.
In tre settimane il fuoco è riuscito nell'impresa: bucare la superficie del mare e continuare a salire, 20 metri, 40, fino a toccare i 65 metri di altezza.
Ferdinandea nasce come nascono le cose selvagge: in fretta, senza chiedere permesso, cambiando per sempre la geografia di un pezzo di Mediterraneo. Sul suo dorso si aprono crateri che fumano giorno e notte, si formano laghetti sulfurei color verde bottiglia, crescono creste taglienti dove il vento suona come un organo. Una terra vergine di quattro chilometri di circonferenza, dove nessun piede umano ha mai camminato e nessuna bandiera ha mai sventolato.
Ma in quel 1831 il Mediterraneo è un mare sorvegliato (un po’ come lo è attualmente). Ogni pezzo di terra conta, ogni isola può diventare una base navale, un punto di controllo, una chiave per dominare le rotte commerciali. La notizia dell'isola nuova fa il giro delle cancellerie europee come un lampo.
I primi ad arrivare sono gli inglesi. Il 3 agosto a spuntare all’orizzonte è la corvetta HMS Rapid. Il capitano Jenhouse fa calare una scialuppa, sbarca sulla roccia ancora calda e pianta l'Union Jack sulla vetta più alta. L'isola ha un nome: Graham Island, dal primo lord dell'Ammiragliato britannico. E ha un padrone: Sua Maestà la corona britannica.
Ferdinando II di Borbone non la prende bene. Due settimane dopo arriva la risposta: un decreto reale che rivendica l'isola come territorio del Regno delle Due Sicilie. Il nuovo nome suona più mediterraneo: Ferdinandea, in onore proprio del sovrano, che non ha intenzione di lasciarsi soffiare un pezzo di regno da marinai che vengono dal nord. La logica è semplice: l'isola dista solo trenta miglia nautiche dalle coste siciliane, quindi è “casa nostra”.
I francesi scelgono la carta della scienza. Fine settembre, una spedizione guidata dal geologo Constant Prévost raggiunge l'isola con strumenti di misurazione, campioni e carte geografiche. Non piantano bandiere, ma battezzano la terra emersa Île Julia, dal mese di luglio in cui è nata. Il messaggio è sottile ma chiaro: chi studia un fenomeno ne acquisisce il diritto di denominazione.
Tre nazioni, tre nomi, tre modi di guardare la stessa manciata di roccia vulcanica. Ma mentre diplomatici e cartografi discutono di confini, il mare sta già lavorando. Ferdinandea è nata troppo in fretta, con materiali troppo fragili. Senza più magma che la alimenti dal basso, ogni onda diventa una piccozza che stacca pezzi di futuro.
L'agonia è rapida quanto la nascita. Ottobre, novembre, dicembre: l'isola si riduce a vista d'occhio, perde metri di altezza e chilometri di circonferenza. I crateri si spengono uno dopo l'altro, le creste crollano nelle mareggiate, i laghetti sulfurei spariscono inghiottiti dall'acqua salata. A gennaio del 1832 anche gli ultimi scogli affioranti vengono cancellati da una mareggiata più forte delle altre.
Che meraviglia il Mediterraneo quando fa politica da solo! I trattati diventano carta straccia, le rivendicazioni perdono il loro oggetto, i nomi rimangono appesi al vuoto come bandiere senza asta. Ferdinandea-Graham-Julia torna da dove è venuta, lasciando solo una lezione amara: la materia è più forte delle nostre ambizioni.
E sotto la superficie la storia continua. Il cono vulcanico troncato diventa parte del sistema di Empedocle, una costellazione di vulcani sottomarini che respirano piano lungo le fratture del Canale di Sicilia. Lì la geologia continua il suo lavoro senza testimoni: gradoni di lava che si coprono di spugne colorate, canaloni dove la corrente trasporta sedimenti, fumarole che sputano bolle verso la superficie.
Chi oggi sa dove guardare riconosce ancora i segni di Ferdinandea. Il mare cambia colore sopra il banco, passa dal blu profondo al turchese dove l'acqua si fa meno profonda. I gabbiani volano diversi quando trovano le correnti ascensionali sopra le fumarole ancora attive. I pescatori più vecchi sanno leggere l'acqua come un libro aperto: quando odora di zolfo, quando le bolle salgono dal fondo, quando il mare "parla" di fuoco sottomarino.
Per i sub che osano scendere fino al banco, Ferdinandea rivela i suoi segreti uno per uno. La morfologia del cono racconta ancora la storia di quei sei mesi: qui c'era un cratere, là una colata di lava, più in là i depositi di cenere che il vento accumulava nelle conche. Ogni metro di profondità è una pagina di quella cronaca breve e intensa, scritta nel linguaggio delle rocce.
I ricercatori dell'INGV hanno piazzato strumenti sul banco per ascoltare il respiro del vulcano. Sismografi che registrano ogni micro-terremoto, sensori che misurano la temperatura dell'acqua, campionatori che analizzano i gas disciolti. Ferdinandea è sotto osservazione continua, perché nessuno sa se e quando il fuoco sottomarino deciderà di riprovarci.
La probabilità di una nuova emersione nello stesso punto è bassa, dicono i vulcanologi. I coni monogenici - così si chiamano in gergo tecnico i vulcani come Ferdinandea - di solito fanno una sola apparizione nella loro vita geologica. Ma il sistema di Empedocle è vasto e attivo, le fratture corrono per chilometri sotto il fondale, il magma trova sempre nuove strade verso la superficie. Chissà, Ferdinandea potrebbe essere stata solo la prova generale di qualcosa di più grande.
Intanto il banco sommerso è diventato un'oasi di biodiversità. Le rocce vulcaniche offrono substrato ideale per spugne, alghe corallinacee, cnidari. Le fumarole creano microhabitat particolari, dove prosperano batteri chemiosintetici e invertebrati adattati all'acqua calda. È un ecosistema giovane ma ricco, nato dalle ceneri di un'isola che non c'è più.
La storia di Ferdinandea parla al presente in tre lingue diverse.
La lingua della geologia dice che il Mediterraneo non ha finito di trasformarsi, che sotto la superficie tranquilla si muovono energie capaci di ridisegnare le mappe.
La lingua della storia ricorda che i confini sono linee sulla carta, ma la Terra ubbidisce solo alle sue leggi.
La lingua dell'ecologia sussurra che ogni cambiamento, anche il più brusco, può diventare opportunità di vita nuova.
A rendere omaggio a Ferdinandea c’è una lapide collocata sott’acqua dai sommozzatori locali, che recita “questo lembo di terra era e sarà sempre del popolo siciliano”. A noi tutti rimane quel punto dove il blu cambia intensità, dove l'acqua si scalda di un grado sopra le fumarole, dove il mare custodisce la memoria di un'isola durata poco più di una stagione. È lì che il Mediterraneo continua a scrivere la sua storia.
Ferdinandea non è scomparsa: ha scelto l'acqua come dimora definitiva. Dove il sale protegge meglio del vento, dove le correnti portano nutrimento, dove la pressione tiene insieme quello che l'aria aveva disperso. È lì che l'isola effimera trova la sua eternità, sette metri sotto una superficie che non riesce più a bucare, ma che continua a scaldare con il respiro di un vulcano che non ha mai smesso di sognare la luce.
Il libro da leggere per saperne di più - “Dell'isola Ferdinandea e di altre cose” è il saggio storico-narrativo che ricostruisce tutta la vicenda e che negli anni ha ispirato anche cinema e teatro.
L’isola Ferdinandea nei romanzi di due grandi scrittori - In “Le mirabolanti avventure di mastro Antifer”, Jules Verne ci conduce in un’avventurosa caccia al tesoro che culmina proprio sull’isola siciliana. Mentre in “Un filo di fumo” di Andrea Camilleri, Ferdinandea diventa simbolo di destino e salvezza inaspettata.
Il catalogo d’arte - L’interpretazione creativa dell’artista francese Clément Cogitore, nel catalogo della mostra “Ferdinandea”, ospitata qualche anno fa dal Museo Madre di Napoli.
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Si, Simone, meno male che c’è il mare!
Che bello leggere di Ferdinandea: pensa che è una delle isole di cui raccontai nel mio primo libro "Il giro d'Italia in 80 isole" 🌊.